L'epoca degli influencer è finita (2024)

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Soprattutto, i creator devono dimostrare di avere delle idee e di metterle in pratica. Khaby Lame diventa in questo senso il volto perfetto del cambio di marcia, riprende la gestualità del cinema muto e iniziando a fare video reaction ad altri video già virali su TikTok: a giugno 2022, il suo numero di follower supera quello di Charli D’Amelio, campionessa di balletti insieme alla sorella, ma figura non proprio di rottura rispetto alle influencer di Instagram. L’influencer economy torna prepotentemente a essere content economy: gli influencer che postavano foto in cui comparivano prodotti e un po’ defilato il solito hashtag #adv fanno il loro tempo. Non si tratta più di fare “contenuti spontanei”, apparentemente autentici; i content creator creano dei nuovi linguaggi, uno stile riconoscibile, e con quello parlano alle nuove community, più giovani e sempre meno disposte a essere influenzate.

Il boom del de-influencing

Su TikTok compaiono figure che si chiamano “L’influencer onesta” e “L’influencer povera”; le nuove influencer fanno de-influencing, cioè testano prodotti che dicono di comprare di tasca loro, rincorrendo un’autenticità nel frattempo perduta. Gli utenti online adesso vogliono essere intrattenuti, hanno capito che la loro attenzione ha un valore e pretendono in cambio qualcosa in più: più performance o più autenticità, appunto. Nel 2023, gli Influencer che operano soprattutto su Instagram si ritrovano improvvisamente in recessione dopo annate di vacche grasse; l’ingresso in scena di TikTok e dei content creator ha svalutato il loro valore commerciale. Chiara Ferragni si fa un po’ la portavoce della vecchia guardia, la cui fase discendente ancora non è così evidente agli occhi dell’opinione pubblica. Va a Sanremo e si lancia in improbabili spot a Instagram (stranamente a Sanremo 2023 nessuno nominerà mai TikTok, se non in palchi laterali), veicolando messaggi che pretendono di essere femministi ma sono soprattutto autoreferenziali. Indossa un vestito con i commenti degli hater ma il pubblico generalista questa volta non accetta l’invito a compatirla, e non basta neanche la donazione a un’associazione a risollevare le sue sorti reputazionali.

È da dicembre 2022 che riecheggia, infatti, tra un social e l’altro la “questione pandoro”, che diventa la keyword da tenere sotto controllo, o possibilmente cancellare. Il 2023 è anche l’anno degli sfoghi online: gli influencer con la reputazione a picco pubblicano video in cui piangono, parlano della loro salute mentale compromessa dal ritmo frenetico richiesto dai social, dalle difficoltà sempre maggiori di mantenersi in hype. Clio Make-up col volto rigato dalle lacrime dice: “Adesso è pieno di squali pronti a mangiarti”. I brand improvvisamente si allontanano dagli influencer come fossero radioattivi: chiedono maggiore trasparenza, si interrogano su quanto effettivamente “convertano”, pretendono dati dettagliati sulle community. Il numero dei follower esibito in cima ai propri account non è più garanzia di contratti con le aziende.

Le aziende aprono gli occhi

Non basta più l’esposizione del sé, bisogna dimostrare cosa si sa fare. Le aziende nel 2024 sono tornate ad avere come principali ambassador attori, atleti, popstar capaci certamente di entrare in contatto con i loro fan anche online; usano ancora all’interno del loro marketing mix gli influencer (a patto che siano trasparenti e professionalmente impeccabili) e i content creator, preferendo però intrecciare collaborazioni più a lungo termine ed entrando più in profondità nelle loro strategie di comunicazione, portando avanti contenuti sponsorizzati ma raccontati con linguaggi nuovi e creativi. Agli influencer viene contestato tutto, soprattutto l’uso spregiudicato dei loro figli per farne del content, oltre che la poca trasparenza anche in ambiti che ne richiederebbero molta, soprattutto quelli medico-scientifici. Eppure bisogna dar loro atto che sono stati forieri di una rivoluzione sociale; dal saggio L’industria degli influencer di Emily Hund (Einaudi): “Lo sviluppo dell’industria degli influencer si è basato sul desiderio di sicurezza e autonomia degli individui – relativo alla loro situazione finanziaria, alla loro creatività e al loro tempo – che è stato avvertito in modo particolare di fronte alla destabilizzazione professionale e alla maggiore insicurezza economica degli anni Duemila”. E ancora: “Nonostante le narrazioni più diffuse sull’industria degli influencer affermino il contrario, generalmente le persone coinvolte non vi partecipano in quanto figlie narcisiste dell’era dei social media. Lo fanno perché ciò appare come una solida opportunità di soddisfazione professionale in un mondo che spesso appare impazzito”.

Insomma, ecco gli influencer: da ignoti dietro uno schermo allo zenit della popolarità online, e poi di nuovo a terra, scherniti, additati come individui senza vergogna, incapaci di trovarsi il proverbiale lavoro vero. Forse è stato solo un modo maldestro di provare ad hackerare il sistema (il tardo-capitalismo, la società dell’immagine, l’Occidente). E alla fine non ci sono riusciti.

Questo articolo è originariamente apparso su Wired n.109, in edicola ora.

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Author: Manual Maggio

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